Le Botti in Legno

Anche per il lungo periodo di fermentazione e di maturazione del vino, facciamo fieramente uso esclusivo di botti in legno. La lunga storia del vino e del legno, il loro perfetto confarsi, la capacità del legno di conferire al vino il giusto grado di ossigenazione, la sua lenta decantazione e la sua progressiva chiarifica: sono queste le idee cardine che hanno guidato il nostro lavoro e la nostra passione. Nel corso degli ultimi trenta-quaranta anni la gran parte delle cantine, principalmente per motivi economici, ha dismesso questo materiale, sostituendolo prima col vetroresina, poi con l’acciaio, per recuperarne un utilizzo sotto la modalità del barricaggio. Noi restiamo saldi nei nostri convincimenti. Numerose sono le interazioni che si instaurano tra contenitore e contenuto, interazioni che determinano cambiamenti sostanziali su entrambi, cambiamenti intensi che, se non correttamente sorvegliati e governati, possono diventare dannosi.

La porosità naturale del legno provoca la lenta e graduale microssigenazione del vino, di qui la sua maturazione e una buona parte del suo affinamento. Il legno cede al vino numerosi suoi costituenti e, a sua volta, ne riceve. Il più evidente, il magnifico e rilucente cremor tartaro, o semplicemente tartaro, che si deposita sulle pareti interne della botte e che alle volte si può rinvenire sul fondo delle nostre bottiglie, lasciate più o meno invecchiare. Questo fenomeno, alle volte non gradito dal bevitore, è però segnale evidente di bassissima manipolazione e di naturalità del vino: basta fare attenzione all’atto della mescita, si tratta di particelle abbastanza grandi e quasi mai in grado di intorbidare il vino.

Ogni botte, ogni anno, sia per qualità proprie, sia per la storia vinaria che porta con sé, si disporrà a consegnarci un vino diverso da quello di un’altra. Allo stesso tempo riceverà dalle caratteristiche di quanto ha tenuto in sé in quell’anno ulteriori impronte ed ulteriori caratterizzazioni. Merita particolare attenzione la fattura delle botti presenti nelle nostra cantina. Le doghe non provengano da procedure di piegatura “a caldo” del legno, così come invece sono fatte tutte le botti in legno attuali, comprese le barrique. La curvatura delle nostre doghe è frutto di segatura, a partire da una tavola di legno molto spessa.

E’ facilissimo accorgersene, basta osservare che, mentre nelle barrique e nelle botti in legno di fattura più recente il lato lungo della doga ha la superficie curvata, nelle nostre botti essa è retta. La prima differenza tra i due tipi è l’irreparabilità: i bottai di un tempo, di fronte alla richiesta di restauro o di ristrutturazione di una botte di quel tipo, semplicemente si rifiutavano. Sapevano che un legno scaldato perde ogni possibilità di rigonfiamento e pertanto la capacità della botte di sigillarsi. Inoltre, se la botte restava inattiva per del tempo, si assisteva all’inesorabile raddrizzamento delle doghe e, di qui, la loro inutilizzabilità. Le botti in legno oggi in commercio quasi sempre sono costruite con legname estero (francese, sloveno o altro) e sono quasi sempre di farnia (quercus robur), legno molto simile al rovere (Quercus petrae), ma più tenero, usato proprio perché di più facile lavorazione a caldo. Si tratta di legno non stagionato a lungo e poi “tostato”, allo scopo di estrarre subito i sapori e i profumi per conferirli al vino. Di conseguenza, dopo due-tre anni, la barrique non è più in grado di aggiungere alcunché al vino e viene dismessa. Il legno tradizionale delle nostre zone era, invece, quello di roverella (Quercus Pubescens), pianta di taglia inferiore rispetto al rovere ma, nelle caratteristiche del legno, simile. Alle volte si usava anche il gelso (Morus alba), specie in Italia molto presente per via dell’uso delle foglie come alimento per i bachi da seta. La pianta, dell’una o dell’altra specie, veniva tagliata e il legname fatto stagionare almeno sette-otto anni. Una volta completata la costruzione della botte, iniziava la lunga procedura dell’avvinamento che, più sotto, proveremo a descrivere. Le differenza sostanziali sono evidenti. Con la barrique, si fa maturare il vino, conferendogli i profumi e sapori frutto della tostatura, mentre la botte tradizionale voleva evitare il più possibile che il vino “sapesse” di legno.  

Ciò che conferiva e continua a conferire sapore, odore e differenziazione è la storia della botte: il luogo dove è stata tenuta, il giusto equilibrio tra tenore di umidità e di arieggiamento dell’ambiente; i mosti e i vini che ha avuto nel tempo, con le loro diverse caratterizzazioni di anno in anno; la mano del cantiniere, nel suo sapiente lavoro di continue colmature - per non lasciare mai accesso all’aria e il legno asciutto - di lavaggio, di riapertura, richiusura e solfatazione (bruciatura di zolfo al suo interno) dopo i vari vuotamenti e ri-riempimenti.

Le nostre botti (tutte di roverella e una di gelso)

Negli anni passati dunque, di concerto con un mastro bottaio (dalle nostre parti, ma non solo, specie estinta...), si è proceduto alla stabilizzazione di botti già in dotazione dell’azienda e, contemporaneamente, si sono ricercati nelle nostre campagne botti e tini da tempo dismessi. Poi, il paziente lavoro al loro recupero e restauro: un processo lungo che richiede, prima dell’entrata stabile in uso, tre-quattro anni di sanificazione e avvinamento. La prima fase è la sostituzione di cerchi danneggiati o inoperanti e di doghe rovinate, marce o genericamente ammalorate. Poi si tolgono tutte le vecchie incrostazioni di tartaro, dietro le quali potrebbero nascondersi muffe e marcescenze, dopodiché la botte viene lavata abbondantemente con acqua, possibilmente forzata e/o calda. Solo allora, inizia la fase dell’imbossamento (parola inesistente nel vocabolario, forse un francesismo da bosse, bozzo, gonfiore, rigonfiamento), per far rigonfiare il legno delle doghe e riportare la botte a essere perfettamente sigillante e stagnante. Viene così progressivamente riempita di acqua (in un primo momento, tende ad avere perdite un po’ dovunque) e tenuta piena per un tempo variabile, direttamente proporzionale al tipo di legno di cui è fatta, al tempo in cui è rimasta vuota e al luogo in cui è stata lasciata inattiva. Una volta stagnata, viene lasciata asciugare e, perfettamente asciutta ma senza che trascorra troppo tempo oltre l’asciugamento per evitare formazione di nuove muffe, la botte viene chiusa, ponendo a bruciare al suo interno (si è visto sopra) dello zolfo: l’anidride solforosa che si sprigiona svolge un’azione decisiva contro microorganismi, funghi e batteri, i nemici del legno. Questa procedura è solo preparatoria inquantoché, prima di poter accogliere il vino, la botte necessita di alcuni altri passaggi delicati. Qualche giorno prima della vendemmia, la botte viene riaperta e si provvede a immettere all’interno un decotto, ancora bollente, di foglie verdi di pesco: ciò ha azione de-odorante e, essendo caldo, anche sanificante. Alla vendemmia, dal foro superiore della botte viene immesso il mosto completo delle sue vinacce, così come esso esce dalla pigiatrice. Si porta al 60% del suo contenuto e si lasciano passare alcune ore, fino a che inizia la fermentazione della massa.

Tre volte al giorno, la massa viene rimescolata come si può (l’unico accesso all'interno della botte è il piccolo foro superiore), fino alla fine della fase fermentativa. Allora, si apre l’uscio anteriore, anche qui con non poche difficoltà, vista la pressione esercitata, dal di dentro, da parte della massa vinaria. Il vino viene finalmente separato dalle vinacce e posto in un’altra botte. La prima botte viene completamente svuotata, passata con mosto di vino (senza vinacce) in funzione di lavaggio e lasciata asciugare. Asciutta, riceve lo zolfo nella modalità già descritta e viene lasciata in quello stato per un anno, provvedendo solo alla bruciatura bi o tri-mestrale di nuovo zolfo al suo interno. Al secondo anno, se la botte non ha sviluppato cattivi odori o altro, oltre a un nuovo imbossamento, si effettua un paio di passaggi di mosto, entrambi stavolta senza vinacce. Terminata la fermentazione del mosto, questo viene ritravasato, per eliminare la feccia dal fondo, e poi reimmesso nella botte, lasciandolo al suo interno per non più di un mese - un mese e mezzo. A questo punto, il vino viene travasato e la botte asciugata, richiusa e solforata. Resterà ferma ancora un anno. L’anno successivo, avendo effettuato le regolari solforazioni, se all’atto dell’apertura la botte non ha cattivi odori, non presenta ammuffimenti o deterioramenti di vario genere e tutto è andato nella direzione desiderata, si potrà finalmente utilizzarla, prolungando la permanenza del vino fino al travaso di primavera. Qui, senza soluzione di continuità, la botte può ricevere ancora vino, ormai come una normale botte in attività.  

In cantina non viene attuato alcun condizionamento della temperatura né degli ambienti, né dei vasi vinari, in ciò facilitati sia dalla cantina semi-interrata, adiacente al vigneto, che riceve le uve fresche, sia dalla scelta dei materiali con i quali la cantina è stata via via ristrutturata.

Ogni intervento edilizio, infatti, è stato effettuato conservando il legno (travi e tavolato del soffitto), la calce (muri e intonaco), il mattone cotto (muri, pavimento). Sono materiali naturali che, oltre a non aver subìto trattamenti e dunque non rilasciando alcun tipo di inquinante nell’aria, assicurano traspirazione, tenuta della temperatura e, cosa decisiva per il legno delle botti, corretta umidità dell’aria.